Personaggi

Molti sono i nomi dei grandi uomini che hanno lasciato la loro impronta nella bergamasca.

 

 

BARTOLOMEO COLLEONI

Bartolomeo Colleoni

Nasce a  Solza  (BG), figlio di Paolo e Riccadonna  Sanguini  de’ Vavassori di Medolago, una famiglia di stirpe longobarda. Sulla sua data di nascita non vi è certezza: leggendo l’epigrafe sul suo sepolcro si risale al 1395 ma il suo biografo ufficiale, il contemporaneo  Antonio  Cornazzano, indica quale data di nascita l’anno1400.  Il condottiero è ricordato specialmente per essere stato l’ultimo Capitano Generale delle milizie  veneziane, dopo aver combattuto sia per il Ducato  di Milano che per la Repubblica di Venezia. 
Colleoni inizia la sua carriera militare come scudiero presso Filippo Arcelli, signore di  Piacenza, all’età di 14-15 anni. Tra il  1428  e il  1430  si distingue nell’assedio di Bologna, ove combatte per  Papa Martino V. Il suo nome comincia a diffondersi tanto da essere notato da  Venezia, a servizio della quale entra nel  1431 in qualità di luogotenente del  CarmagnolaIn quello stesso anno si distingue nell’attacco a  Cremona  del 17 ottobre, che invece costerà l’accusa di tradimento e l’esecuzione al suo comandante. Venezia gli concede il feudo di  Bottanuco. È l’inizio del suo consolidamento patrimoniale.    

Dopo la pace di  Ferrara  del  1428, si ritira nei suoi possedimenti bergamaschi che comprendevano Martinengo, Urgnano, Romano e  Malpaga, sua residenza di rappresentanza. Sposa  Tisbe Martinengo, appartenente a una delle  famiglie più importanti della nobiltà bresciana: è infatti figlia di Gaspare Martinengo, comandante dell’esercito veneto. Il matrimonio, che comporta un’alleanza tra le due famiglie, lo proietta in un ambito sociale, militare e geografico più ampio ed elevato: i Martinengo costituivano, infatti, un consorzio parentale particolarmente ricco e potente sia politicamente che militarmente, con grandi possedimenti a  Martinengo, a  Brescia  e in  Val Camonica.   

Nel  1437  si riaccende  la guerra tra Venezia e Milano; in questo frangente  l’anno seguente il  Colleoni  difende Bergamo dall’attacco di  Niccolò Piccinino,  capitano generale di  Filippo Maria Visconti.   
Nel 1441 firma con Venezia una condotta particolarmente vantaggiosa con cui ottiene, fra l’altro, i  feudi  di  Romano di Lombardia, Covo  e  Antegnate.  Ma di lì a poco i rapporti con la Serenissima entrano in crisi e il condottiero passa al servizio del Visconti; il servizio tuttavia è travagliato a causa dei rapporti tumultuosi col Piccinino: viene accusato di connivenza e imprigionato per un anno ai Forni di  Monza. Fugge dopo la morte del Visconti (1447), passando alla neonata  Repubblica Ambrosiana  chiamato da Francesco Sforza, al momento Capitano Generale della Repubblica stessa.   

Il 18 ottobre 1447 guida  un’epica  azione militare durante l’assedio del castello di  Bosco Marengo, che oppone Milano alla Francia:  Carlo il Temerario  di Borgogna  lo vuole al suo servizio.   

Il 15 giugno 1448  passa nuovamente al servizio di Venezia, coprendosi di gloria e accumulando un’enorme ricchezza; tuttavia per gli intrighi di  Gentile da Leonessa deve fuggire per evitare l’arresto ordinato dal  Doge e riparare presso Francesco Sforza, diventato signore di Milano, rimanendovi al servizio tra il  1452-53. Il 15 febbraio  1453, lascia Milano e torna a Venezia. Ottiene dalla Repubblica grandi riconoscimenti, anche politici, e la promessa del comando generale.   
Questo finalmente giunge nel  1454: alla Pace di Lodi segue un  periodo  di  inattività.   
Dopo la nomina cui ambiva da sempre, nel 1454 il condottiero viene infeudato dalla Serenissima di un grande territorio, che da lui prese poi il nome di “feudo colleonesco”, a cui viene garantito sotto il suo dominio un ventennio di pace e di prosperità, conclusosi nel 1475 con la sua morte. Il feudo comprendeva, oltre a Martinengo, anche i comuni di Romano di Lombardia,  Urgnano  e la frazione della  Basella,  Cortenuova,  Cologno  al Serio,  Cavernago,  Antegnate,  Calcinate,  Castell’Arquato,  Cavenago d’Adda, Covo, Malpaga, Mornico al Serio e naturalmente  Solza.  A Malpaga riadatta una vecchia torre d’avvistamento con un piccolo castello trecentesco, dando origine al suo castello, esempio di vita cortese nella bassa. 

Il 15 maggio  1475  restituisce alla  Serenissima  il bastone del comando e inizia a smobilitare le sue truppe. Venezia, consapevole della ormai prossima fine del proprio condottiero -nelle paludi di  Molinella aveva contratto la malaria che lo indebolisce sempre più-, respinge le sue dimissioni e gli affianca tre provveditori con funzioni amministrative e di controllo, sapendo che Colleoni le avrebbe lasciato in eredità la maggior parte del suo patrimonio: diverse proprietà immobiliari e una somma di oltre 300.000 ducati.   
Il 3 novembre 1475 muore nel  castello di  Malaga.  Dopo avergli tributato funerali solenni, Venezia recupera tutte le concessioni feudali elargitegli. Nel testamento vi era un  legato  a carico di Venezia: l’elevazione di un monumento in suo onore nella piazza San Marco: la Repubblica, timorosa del culto della persona, onora solo parzialmente questo legato.   

La sua tomba è  rinvenuta  il 21 novembre 1969 nella Cappella  Colleoni di Bergamo.   

La  discendenza  

Bartolomeo Colleoni morì senza una diretta discendenza maschile, ma ebbe otto figlie, tra legittime e illegittime.   
Tra queste la più (tristemente) famosa è sicuramente Medea, la prediletta, morta quattordicenne e sepolta fino al 1842 nel santuario della  Basella  di  Urgnano, quindi traslata nella Cappella  Colleoni  in Città Alta, vicino al padre. 
Le altre tre, Orsina, Caterina e Isotta furono date in sposa a membri della famiglia bresciana dei  Martinengo, che erano tra i principali collaboratori militari del Colleoni.   
Cassandra e  Polissena,  sposarono rispettivamente  Niccolò II da Correggio  e Bernardo  da Lodrone. Le ultime due,  Riccadonna  e  Doratina,  ancora nubili  alla morte del padre, sposarono in seguito due membri dell’importante famiglia veneziana dei  Barozzi, portando cospicue doti provenienti dalle proprietà del padre.   

Nel particolare Bartolomeo e  Tisbe Martinengo ebbero tre figlie di rilevanza dinastica:   
La primogenita  Orsina (o Ursina), sposa di Gherardo Martinengo, che divenne conte di Malpaga come successore del suocero, adottandone anche il cognome;  i figli quindi presero il nome di Martinengo-Colleoni  e furono i maggiori beneficiari del suo testamento.  
Caterina, sposò  Gaspare Martinengo, dando origine  ai “Martinengo  delle Palle”;   
Isotta, sposò Giacomo Martinengo, dando origine  ai “Martinengo  della Motella”.  

Il committente  

A imperitura memoria del Colleoni rimangono il  monumento equestre  del  Verrocchio  a Venezia e la Cappella Colleoni a  Bergamo Alta, capolavoro  architettonico di  Giovanni Antonio Amadeo. Tuttavia il condottiero in prima persona commissionò importanti edifici: si è già detto del Castello di Malpaga. A  Martinengo, sua terra d’elezione dove  fece  risiedere la sua famiglia nella Casa del Capitano, realizzò due  conventi, entrambi francescani: quello di  Santa Chiara -eretto in onore di un voto della moglie- e quello della  B.V. Incoronata.    

Anche Tisbe fece costruire edifici religiosi, molti andati distrutti, come la chiesa di Santa Maria Maddalena a Romano di Lombardia, distrutta ad inizio XVI secolo per edificare la basilica di San  Defendente. 

Il condottiero non trascurò nemmeno le iniziative benefiche: il 19 febbraio  1466 fonda il  Luogo Pio della Pietà Istituto Bartolomeo Colleoni, con sede nella sua residenza bergamasca. Scopo: fornire doti alle fanciulle povere e legittime nate in territorio bergamasco al fine di facilitarne il matrimonio. L’ente, tuttora esistente, opera negli ambiti di filantropia, beneficenza e promozione di iniziative storico-culturali legate alla figura del condottiero.   

Fu  inoltre fautore di una lungimirante politica di gestione  delle  acque nella provincia di Bergamo.  Per esempio si rese inoltre promotore della ristrutturazione delle terme di  Trescore Balneario, in quei tempi in stato di completo abbandono. Ottenute le concessioni dalla Repubblica di Venezia il  26 novembre 1469  le abbellì, ampliandole e rendendole efficienti.   

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GABRIELE TADINO

La famiglia di Gabriele Tadino è originaria di Caravaggio, dove era conosciuta anche dai Visconti. Il nonno, Michele Tadino, nel 1434 si trasferisce a Martinengo esercitando come medico condotto. Il 26 gennaio 1446 Bartolomeo Colleoni lo nomina medico dell’esercito veneziano; ottiene così la cittadinanza bresciana. Suo figlio Clemente continua l’attività di medico. Dei quattro figli maschi di quest’ultimo i primi tre, Giovan Francesco, Gerolamo (morto nel 1526) e Gabriele, si dedicano alla carriera militare, il quarto, Michele, alla medicina. C’è anche una figlia, Tranquilla. Dalle date di nascita dei fratelli si deduce che Gabriele nasce tra 1476 e il 1479. L’anno più probabile è il 1478.  

Terminati gli studi di scienze e difese militari nel 1508 Gabriele si arruola nell’esercito della Repubblica di Venezia come soldato e ingegnere militare. Tra i primi incarichi figurano gli interventi sulle fortificazioni di Crema nel 1513.  
Qualche anno dopo lo ritroviamo a Creta, dove viene nominato sovrintendente delle fortificazioni nel 1521, potenziandole sensibilmente. A Candia esiste tuttora un bastione chiamato “bastione Martinengo”, rielaborazione in tempi successivi di un torrione rotondo costruito proprio nel 1521.  
Era appunto impegnato in questo compito quando nel 1522 frate Antonio Bosio richiede il suo intervento nella difesa di Rodi, assediata dai Turchi; tuttavia il governatore di Candia gli nega il permesso di partire. Tadino si risolve allora di imbarcarsi di nascosto dalle autorità venete e parte per l’isola.  
Qui è accolto con grandi onori: diviene responsabile della difesa della città ed entra nell’ordine dei Cavalieri gerosolimitani. Gli emblemi dell’ordine sono appunto esibiti con fierezza nel ritratto che Tiziano esegue nel 1538, ora conservato presso la Cassa di Risparmio di Ferrara. Il ritratto lo raffigura mancante dell’occhio destro, perso per un proiettile di archibugio passato attraverso una feritoia proprio mentre esaminava le fortificazioni di Rodi.  

Tadino diede il suo notevole contributo nella messa a punto di strumenti atti a individuare le gallerie in costruzione da parte dei Turchi e nella preparazione di contromine, che fecero stragi nell’esercito assediante. Ciononostante, dopo una strenua resistenza di oltre quattro mesi Rodi si arrende a Solimano I. Gli assediati lasciano l’isola.  

Nell’agosto del 1526 Tadino si reca nel regno di Napoli, dopo aver visitato il suo priorato di  Barletta,  per esaminare lo stato delle fortificazioni; nella città partenopea lo raggiunge una missiva di Carlo V che richiede urgentemente la sua presenza a Genova, assediata per mare e per terra dai francesi. Dopo alterne vicende, nelle quali rimangono uccisi suo fratello Girolamo e suo cugino Fabrizio, in una battaglia nei pressi di Sampierdarena (agosto 1527) le truppe imperiali sono sconfitte dagli uomini di Cesare Fregoso che occupa la città e cattura Tadino mentre cerca salvezza su una barca, tenendolo prigioniero fino all’ottobre del 1527.  

Sicuramente però tra gli assedi passati alla storia a cui Tadino partecipa quello più noto è l’assedio di Vienna. Nel 1532 si era radunato a Vienna un potente esercito (le fonti riportano un numero che si aggira tra i duecento e i trecento mila armati) per contrastare l’arrivo di Solimano deciso a conquistare la città. La difesa è capitanata da Antonio de  Leyva, affiancato da don Ferrante Gonzaga, comandante della cavalleria leggera, e dal nostro Gabriele Tadino in qualità di comandante dell’artiglieria. Il pericolo di un attacco turco alla porta d’Europa  viene fortunatamente scongiurato perché Solimano giunge vicino a Vienna alla fine di settembre e rinuncia all’impresa prevedendo troppo difficoltà dovute sia al maltempo sia all’imponenza dell’esercito a difesa della città.  

Gabriele Tadino muore a Venezia il 4 giugno 1543. Viene sepolto a Venezia nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo dove, in quegli stessi anni, si stava erigendo per decreto del Consiglio dei Dieci, il monumento equestre ad un altro importante bergamasco: Bartolomeo Colleoni.     

Curiosità  

– Pare che Galileo Galilei abbia chiosato a margine un’opera dialogica del matematico  Niccolò Tartaglia  (Quesiti ed invenzioni diverse) in cui Tadino è l’interlocutore principale. Tadino e Tartaglia si conoscevano fin dai tempi del sacco di Brescia (1512), quando Tartaglia era ancora fanciullo, ed erano indubbiamente in rapporti di amicizia se si considera che il matematico ha dedicato all’ingegnere la sua traduzione prima dell’Euclide  megarense.  

– Sia Clemente Tadino che i figli Giovan Francesco, Gabriele e Michele appaiono nell’elenco dei consiglieri del comune di Martinengo.  

 

 

GIACOMO QUARENGHI

Giuseppe Poli, Ritratto di Giacomo Quarenghi (1811), coll. privata. Il ritratto fu realizzato su commissione del sindaco di Bergamo per destinarlo alla galleria del salone municipale riservata ai bergamaschi più illustri.

Giacomo Quarenghi nasce il 21 settembre 1744 a Capiatone, frazione di Rota d’Imagna (BG), secondogenito del notaio Giacomo Antonio Quarenghi e Maria Rota, appartenente quindi a una famiglia di antico lignaggio che possedeva diverse proprietà a Bergamo. Trascorre la sua giovinezza a Bergamo Alta, studiando presso il Collegio Mariano, dove acquisisce solide basi umanistiche dimostrandosi però maggiormente interessato alla pittura. D’altro canto sia il padre che il nonno avevano coltivato la medesima inclinazione, realizzando qualche opera nelle zone circostanti.

Il giovane Giacomo si dedica quindi alla pittura, nonostante l’opinione contraria del padre. Nella parrocchiale di Santa Caterina a Bergamo rimangono alcune di queste sue prime opere.
Dopo un iniziale tirocinio presso Paolo Vincenzo Bonomini e Giovanni Raggi, nel 1763 Quarenghi si trasferisce a Roma, entrando nella scuola di Anton Raphael Mengs, celebre artista neoclassico. Dopo la partenza di Mengs per la Spagna al seguito della corte di Carlo III, continua la sua formazione nell’atelier di Stefano Pozzi; avvicinandosi però contemporaneamente all’architettura, muovendovi i primi passi guidato da Paolo Posi, Antoine Derizet, e Nicola Giansimoni. Abbandona tuttavia quanto appreso da questi primi maestri dopo la folgorante lettura de I quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio, che lo porta a votarsi al neoclassicismo. Comincia a studiare le antichità di Roma ed entra in contatto con la cerchia capeggiata da Giovan Battista Piranesi, e con gli artisti inglesi residenti nell’Urbe; essi pure influenzarono il giovane, riscaldandone e vivacizzandone lo stile palladiano, il primo con un tratto al contempo razionale e rococò, memore della lezione veneziana del Canaletto, gli inglesi tramite l’utilizzo dell’acquarello documentativo e della ritmica decorativa peculiare delle architetture di Robert Adam. Quarenghi studia con attenzione anche le avanguardie francesi, aggiornandosi con le utopiche novità di Nicolas Ledoux ed Étienne-Louis Boullée.
Compie inoltre un lungo viaggio di formazione nell’Italia centrosettentrionale, toccando Firenze, Vicenza, Verona, Mantova e Venezia; nel Veneto ha occasione di confrontarsi direttamente con le architetture di Palladio e stringe amicizia con gli architetti Tommaso Temanza e Giannantonio Selva.
Tornato a Roma, nel 1771 realizza la ristrutturazione interna della chiesa di Santa Scolastica a Subiaco, la sua prima opera architettonica. Nel 1775 riparte alla volta di Venezia facendo tappa a Parma, Piacenza e Milano, giungendo a Napoli alla fine dell’anno: questo secondo itinerario lo mette in contatto con le realizzazioni di Sangallo il Giovane, di Bramante e di Giulio Romano. 

Tornato infine a Bergamo, sposa Maria Fortunata Mazzoleni, dalla quale avrà quattordici figli.
Dopo pochi anni avviene un cambiamento radicale: nel 1779 la zarina Caterina II di Russia, impegnata in un grandioso programma di modernizzazione e occidentalizzazione del suo impero, aveva dato incarico al suo ministro, il barone Friedrich Melchior von Grimm di trovare due architetti italiani da introdurre al suo servizio. La scelta ricade su Giacomo Trombara e appunto su Quarenghi, che giunge a San Pietroburgo nel gennaio del 1780.
Negli anni successivi gli viene affidato un progetto dopo l’altro: San Pietroburgo, Mosca e le provincie si fregiano in breve delle sue costruzioni e lo innalzano a protagonista assoluto della cultura architettonica del tempo e a promotore dello stile monumentale d’ispirazione palladiana. Una delle chiavi del suo strabiliante successo consiste certamente nel saper conciliare il linguaggio neoclassico con il gusto slavo, medievale e bizantino imperante in Russia, integrando armoniosamente l’architettura con il paesaggio circostante.
L’imperatrice Caterina II ammette che egli lavora «come un cavallo» e l’incarico che inizialmente prevedeva una durata di tre anni viene di volta in volta rinnovato.

A Pietroburgo realizza il Palazzo Bezborodko (1780-90), il Collegio degli Affari Esteri (1782-1783), la Banca di Stato (1783-1800), il meraviglioso teatro dell’Ermitage (1782-1785) -il cui interno è ispirato al Teatro Olimpico di Vicenza-, l’Accademia delle Scienze (1783-1789) dove l’esterno, privo di ornamenti, è marcato da un pesante portico in ordine ionico, e all’interno le eleganti proporzioni e la solennità degli spazi ricordano il gusto dell’antica Roma.
Al di fuori di San Pietroburgo progetta anzitutto la sala per concerti detto “Palazzo Inglese” della reggia di Peterhof (1781-1791), andata distrutta durante il Secondo conflitto mondiale e poi ricostruita, una delle sette meraviglie della Russia, affacciata sul Golfo di Finlandia.

Nel 1785 rientra brevemente a Roma: è in questo momento che il marchese Luigi Terzi decide di approfittare della sua presenza chiedendogli un progetto per rinnovare il suo Palazzo di Mornico.  Quarenghi invia al marchese il progetto di ristrutturazione richiesto; Palazzo Terzi viene cantato dai contemporanei come “Villa di delizie”.

Di nuovo in Russia realizza il Palazzo di Alessandro a Carskoe Selo (1791-1796); a Mosca, tra l’altro, ricostruisce il Palazzo di Caterinacon il Ricovero dei Pellegrini su commissione del conte Šeremetev ed erige, con la collaborazione degli architetti Kazakov e Argunov, il Palazzo di Ostankino (1791-1798).
Nel 1793 muore la moglie.
Nel 1796 la parabola quarenghiana subisce un lieve rallentamento con la salita al trono imperiale di Paolo I di Russia, figlio di Caterina II, che ripudia la politica materna in tutti i campi, compreso quello artistico: ciò malgrado, il nostro prosegue la sua attività a corte, pur conoscendo un sensibile calo nelle commissioni. La sua opera maggiore di questi anni è la Cappella dei Cavalieri di Malta, che gli vale nel 1800 la nomina a Cavaliere di Giustizia dell’Ordine.

Torna a lavorare a pieno regime nel 1801, con l’ascesa al potere di Alessandro I: per conto dello zar e della madre di lui Maria Fedorovna, progetta le botteghe presso Palazzo Anickov, il Maneggio della Guardia a Cavallo, l’Istituto Smolny per le fanciulle nobili (1806-1808) e l’Istituto Caterina.

Nell’autunno del 1810 Quarenghi fa un trionfale ritorno a Bergamo, che non vedeva dal 1794. Per l’occasione, gli viene commissionato un arco trionfale in onore di Napoleone Bonaparte da erigere presso Colognola: l’apparato non sarà portato a termine a causa di mutate circostanze politiche. Nello stesso anno sposa in seconde nozze Maria Laura Bianca Sottocasa.

L’architetto torna a San Pietroburgo nel novembre del 1811, assorbito in una frenetica attività: speciale menzione merita l’arco di trionfo di Narva, eretto per immortalare la vittoria dell’esercito russo sulle armate napoleoniche. Ironia della sorte, se si pensa che il suo rapido rientro dall’Italia fu dovuto alla condanna all’esilio a vita comminatagli da un editto del Generale.

Il 2 marzo 1817 (18 febbraio secondo il vecchio calendario) Giacomo Quarenghi si spegne a San Pietroburgo. Le sue spoglie, dapprima collocate nel cimitero luterano di Volkovo, oggi riposano in un sepolcro del cimitero del Monastero di Aleksandr Nevskij.

 

 

GIOVAN BATTISTA RUBINI

Giovanni Battista Rubini nasce a Romano di Lombardia il 7 aprile 1794, nono figlio (sesto vivente) di Giovanni Battista, sarto, e di Caterina Bergomi. Una famiglia modesta ma in cui la musica è sempre presente. Il padre, suonatore di corno, impartisce a tutti i suoi figli maschi lezioni di canto, violino o flauto, facendoli presto entrare nella compagnia di musicanti che dirige e con la quale si esibisce nei paesi vicini durante celebrazioni religiose e feste patronali. Fin da queste prime occasioni il piccolo Giovan Battista riscuote ammirazione nel duplice ruolo di cantore e violinista. La sua prima apparizione pubblica ha luogo proprio a Romano: dodicenne, ricopre un ruolo canoro femminile. Durante l’adolescenza rivela eccezionali doti canore nel coro della locale parrocchia. Il padre lo affida dunque ad un prete bresciano, organista e insegnante di composizione, il quale però dopo un anno lo congeda col giudicandolo scarsamente portato per il canto e suggerendo di avviarlo ad altra attività. Il padre continuò invece ad impartirgli un’educazione musicale. Tuttavia, conscio del prossimo inevitabile cambio della voce con l’incertezza della qualità derivante, affianca agli insegnamenti musicali l’apprendimento del mestiere sartoriale mandandolo a bottega da un artigiano di Bergamo; tuttavia il naturale talento del ragazzo gli consente il proseguimento degli studi musicali presso un’istituzione locale, al termine dei quali, diciottenne, si propone per la stagione melodrammatica al Teatro Riccardi (oggi Teatro Donizetti), dove appare in cartellone nel 1812 nel duplice ruolo di violinista e corista: la sua voce, particolarmente acuta benché ancora grezza e non particolarmente potente non passa inosservata. L’anno successivo ottiene un ruolo come secondo tenore nel teatro di Palazzolo sull’Oglio e varca la porta del Teatro alla Scala di Milano come membro del coro. Il suo nome comincia a introdursi nell’ambiente teatrale.
Il suo debutto da protagonista avvenne nel 1814 a Pavia, seguita nel 1815 da Brescia e Venezia, ove ha l’opportunità di cantare a fianco di colleghi già affermati. Matura quindi la decisione di abbandonare il laboratorio sartoriale per dedicarsi completamente alla carriera teatrale.

Domenico Barbaja, grande impresario e direttore dei teatri di Napoli e Vienna lo scrittura per la nobile piazza napoletana, all’epoca capitale europea del melodramma, avviando una collaborazione destinata a durare fino al 1829. Dapprima lo fa debuttare al Teatro dei Fiorentini e successivamente al crescente apprezzamento di pubblico al San Carlo nel gennaio del 1817. Confrontandosi con queste prestigiose realtà Rubini diventa consapevole della necessità di uno studio più approfondito e sistematico del bel canto. Il 1818 e l’anno successivo lo vedono trionfare sui palcoscenici romani e palermitani e di nuovo a Napoli, dove conosce e si esibisce con la soprano francese Adelaide Chaumel, con la quale convolerà a nozze nel 1821. La sposa italianizzerà il cognome in Comelli. Il 1818 è anche l’anno del suo debutto ufficiale alla Scala di Milano  in compagnia del fratello Giacomo nell’opera Torvaldo e Dorliska di Gioachino Rossini.
Vero è che oramai anche i compositori hanno preso coscienza della rarità della vocalità Rubini, e non poteva essere altrimenti: nel periodo in cui i castrati cominciano a tramontare Rubini è il primo cantante maschio non castrato a conquistare una fama internazionale. La sua voce si distingue perché combacia con quella dei castrati in coloratura e pathos ed è straordinariamente alta, dotata dei registri acuto e sovracuto, capace di avvicinare le estensioni dei contraltisti mantenendo nel contempo una dolcezza e morbidezza di suono fino ad allora mai udite. Estremamente duttile, la sua estensione vocale è di dodici note, dal Mi bemolle al Si di petto, e raggiunge di testa, col ricorso al falsettone, il Fa e il Sol sopra il rigo, e il passaggio dalla voce di petto a quella di testa è tanto spontaneo quanto impercettibile.
Il costante studio gli permette nel tempo di modellare la voce all’evolversi dei gusti del pubblico e alle esigenze tecniche dei compositori. I quali peraltro creano opere espressamente per lui: Vincenzo Fioravanti è tra i primi ed è accompagnato da nomi assai più illustri: nel 1824 Rubini e l’intera compagnia napoletana si trasferiscono a Vienna suscitando unanimi entusiasmi e l’interesse, tra gli altri, di Ludwig van Beethoven, all’epoca già sordo, ma il cui istinto e sensibilità lo avvertono delle qualità del tenore, per il quale aggiorna con note in italiano alcune sue composizioni affinché egli possa esaltarle interpretandole: Rubini da allora contemplò sempre nel suo repertorio le composizioni dedicategli dal musicista tedesco. Parigi lo applaude l’anno successivo, interprete delle opere dei più grandi compositori del suo tempo, quali Gioachino Rossini e Vincenzo Bellini. A proposito di quest’ultimo, Rubini ne diventò l’interprete per eccellenza: dopo la prova da protagonista maschile nel 1826 di Bianca e Gernando (poi Bianca e Fernando) Bellini scrive Il pirata pensando alla sua voce: uno straordinario successo di pubblico e critica alla prima alla Scala di Milano (1827). seguono La sonnambula  (1831) e I puritani (Théâtre Italien di Parigi, 1835), oltre alla seconda versione della Straniera per l’ultima esibizione al Teatro alla Scala nel 1830. La maturazione artistica del tenore giunge all’apice: Bellini sa trarre dalla sua voce sonorità fino ad allora inespresse, pretendendo anche intensità interpretative altissime. Purtroppo nel 1835 Bellini muore a soli 33 anni: Rubini, Antonio Tamburini, Luigi Lablache, Giuditta Grisi, Giuditta Pasta -tra le massime voci dell’epoca- cantano nella Messa da Requiem in suffragio del grande compositore.
Si apre quindi una terza fase nella carriera di Rubini: diviene il principale interprete delle musiche di un altro bergamasco, Gaetano Donizetti. La piena maturazione artistica gli spalanca le porte dei raffinati auditori europei che lo reclamano e acclamano ripagandolo con compensi favolosi come nessun altro cantante prima. Londra (dal 1831 annualmente, ininterrottamente, fino al 1842), Vienna (1824-1828-1830), Parigi (1825 e poi dal 1832 annualmente fino al 1840), Madrid, Bruxelles e Bordeaux (1841), Berlino (1843), e l’Olanda – dove si reca in compagnia di Franz Liszt- lo consacrano tra i maggiori tenori del secolo.

In questo periodo sopraggiunge infine il desiderio di ritirarsi dalle scene: un progetto rimandato solo dietro le pressanti richieste provenienti da Mosca e San Pietroburgo: lo zar Nicola I gli confersce il titolo di “Colonnello imperiale dei musici di tutte le Russie”. È l’epilogo della carriera pubblica di Rubini che dopo un’ultima apparizione nel 1845 si ritira a vita privata.
Torna a Romano, suo paese natale, e intraprende la costruzione del proprio Palazzo esattamente dove sorgeva la casa della sua famiglia, e dove si stabilisce. Entra a far parte del consiglio comunale e diventa consulente della banda musicale, che ancora oggi ha sede in Palazzo Rubini.

La sera di venerdì 3 marzo 1854 Giovanni Battista Rubini muore a causa di un attacco cardiaco (o polmonite). Viene sepolto il martedì 7 nel vecchio cimitero di Romano di Lombardia in attesa della costruzione del mausoleo intrapresa dalla vedova  e che accoglierà anche le sue spoglie alla sua morte. Il feretro viene coperto dall’uniforme imperiale appuntata di medaglie e sopra ad essa una corona d’oro tempestata di diamanti, anch’essa dono della nobiltà russa. Nel 1954, in occasione del centenario della morte, le salme di Rubini e della moglie sono traslate nel nuovo mausoleo appositamente edificato nel nuovo cimitero.

Al di là della sua leggenda personale, che si può oggi ripercorrere nel Museo di Palazzo Rubini, il tenore ha lasciato in eredità la nuova concezione di interpretazione lirica che ha contribuito a creare: con lui e sulla sua scia i tenori giunsero a ruoli di protagonisti in opere spesso composte appositamente per loro, mettendo la parola fine al dominio dei castrati. Nella lirica contemporanea tuttavia molti ruoli possono essere affrontati soltanto da pochissimi artisti: soprattutto quelli belliniani e donizettiani furono concepiti espressamente per Rubini e i suoi funambolismi, e sono difficilmente eseguibili dai tenori moderni, tecnicamente tendenti a coltivare tutta la gamma d’estensione timbrica della propria voce -come richiede la Grand Opera- e non specificatamente solo gli acuti. 

Curiosità

– Pare che Napoli abbia rischiato la sommossa allorché il pubblico, stanco di aspettare che il re, presente all’opera, applaudisse il tenore per primo come era protocollo. Gli spettatori sollecitarono il sovrano minacciando di farlo di propria iniziativa. Alla fine lo fecero, con conseguenti malumori istituzionali

– Rubini era dotato anche di una formidabile memoria musicale che gli consentiva di memorizzare in breve tempo decine di opere: il suo repertorio comprendeva cinquanta compositori e centocinquanta opere memorizzate e immediatamente eseguibili, senza contare la musica vocale da camera.

– Una volta ritiratosi a vita privata, Rubini amava trascorrere la stagione estiva a Masano, nel palazzo neoclassico (originariamente castello medioevale) che oggi porta il suo nome.

– Prima del 1840 compilò un volume di esercizi per cantanti: Dodoci lezioni di canto moderno per soprano o tenore.